don Giovanni Fortin
“I miei ricordi di prigionia”
(14 dicembre 1943 – 24 giugno 1945)

L’arresto.

La porta della piccola sacrestia si aprì con fragore ed apparvero due figuri …

Stavo leggendo la “Vita di San Giovanni Bosco” ed attirato da quello strano modo, alzai gli occhi e mi vidi dinanzi quei due che mi intimarono: “non si muova!”. Compresi la mia sorte e dopo il primo momento di smarrimento mi resse l’animo di domandare perché e come un’entrata in casa d’altri in tale maniera.

Il più anziano dei due che conduceva l’operazione del mio arresto mi rispose che io dovevo essere preparato a questo colpo di scena. Volli allora vedere i documenti che autorizzavano i due ad arrestarmi e senza porre indugio li seguii. Essi compirono una minuta perquisizione nella mia casa affermando che il mio atteggiamento di antifascista era da tempo assai noto e che l’opera di sabotaggio ai danni della guerra che io andavo svolgendo aveva seriamente compromessa la mia posizione.

Era il mattino del 14 dicembre del 1943, avevo appena celebrata la S. Messa e col mio breviario sotto il braccio in mezzo a quei due indesiderati custodi mi avviai verso la stazione di Padova per essere tradotto dinnanzi al comandante della guardia repubblicana di Venezia.

Non mi fu consentito di avvertire il vescovo del mio arresto e partii immediatamente alla volta di Venezia. Tosto fui interrogato e messo a confronto con un gruppo di cospiratori di Padova arrestati essi pure con le mie imputazioni. Oltre le generiche accuse di antifascisti e di sabotatori della guerra ci si imputava la spedizione di prigionieri inglesi oltre la linea del fronte.

Infatti, il giorno 8 settembre 1943 all’annuncio dell’armistizio da parte dell’esercito italiano con gli alleati, prigionieri anglo – americani erano fuggiti dai campi di prigionia ed avevano trovato rifugio e ristoro presso buone famiglie, ed a preferenza presso le case canoniche.

Anche alla mia porta alcuni prigionieri avevano battuto ed avevano trovato la desiderata ospitalità. Mentre con un comitato di Venezia stavamo prendendo segreti accordi per la spedizione di detti prigionieri, fummo spiati, denunciati ed arrestati.

Con documenti sicuri sulla nostra imputazione i “giudici” si resero certi della nostra colpevolezza e fummo tosto messi a disposizione del comando delle SS tedesche, e tradotti nel carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia. Dopo la deposizione delle generalità, la sera del 15 dicembre alle ore 23 venivo rinchiuso nell’oscura e umida cella di piano terra che porta il numero 22.

Com’è penosa la prima notte di carcere!

Intanto l’autorità ecclesiastica nulla lasciava intentato perché io fossi rimesso in libertà, ma fu vano ogni tentativo. Quanti crucci! Mi tormentava il pensiero di non poter celebrare la Santa Messa, cosa che per interessamento dei miei superiori mi fu poi, in via eccezionale, concessa.

Dopo qualche giorno fui segregato in una cella del piano superiore. Mi fu proibita ogni comunicazione coll’interno e coll’esterno, in attesa del giudizio che doveva pronunciare il comando tedesco nei miei riguardi. E l’attesa diveniva sempre più martoriante. Passato fra gli ostaggi a disposizione dei tedeschi mi pareva che la spada della morte fosse appesa sul capo con tenuissimo filo.

Molti al di fuori lavoravano per il mio rilascio, ma ogni tentativo fallì e dopo settanta giorni di reclusione, levato dalla cella fui condotto nella direzione delle carceri dove trovai altri nove amici di Padova già posti in catene e pronti per la partenza.

A nostro riguardo si bisbigliavano in sordina le supposizioni più disparate. Chi pensava che saremmo passati a Parma presso il tribunale militare speciale, chi opinava che saremmo andati in campo di concentramento. […]

La partenza.

Il volto arcigno di un comandante SS rendeva più rigida l’atmosfera di quella notte, 26 febbraio 1944. Al mattino per tempo fummo condotti in comitiva alla stazione con catene ai polsi, montati sul treno Venezia – Milano fummo rinchiusi in vagoni di sicurezza. Ci accompagnavano guardie repubblicane al comando dell’ufficiale SS. Il desiderio di sapere la nostre sorte accresceva la nostra tristezza, ma nulla ci fu dato di conoscere.

Giunto alla stazione di Padova, un profondo abbattimento mi assale. Il ricordo dei miei vecchi genitori e della mia diletta parrocchia mi strappò dal cuore amarissime lacrime. Mi affacciai al finestrino, ma non vidi nessuno; potei solo clandestinamente inviare uno scritto alla mia famiglia assicurando l’altezza del mio morale, a tutti porgendo il mio saluto.

Tosto fra la nebbia il treno s’allontanò e col cuore affranto detti l’addio alla mia città natale. Padova, Vicenza, Verona. In quest’ultima stazione fu aperta la porta dello scompartimento e fummo comandati di scendere. Inquadrati sotto le pensiline, eravamo oggetto di sguardi pietosi da parte dei viaggiatori. Portati fuori della stazione e montati sopra un carro sgangherato, attraversata la città, venimmo condotti al forte di S. Leonardo prima e di S. Mattia poi, per passarvi un giorno e una notte in attesa che altri si aggiungessero alla nostra comitiva.

Da Milano giunse un’ora dopo un altro convoglio di deportati; era fra di essi padre Carlo Manziana dei PP. Filippini di Brescia […] Le due comitive furono unite e divenimmo da quel momento fratelli per la dolorosa sorte che per noi era stata segnata.

Per tutta la giornata ci costrinsero a rimanere in piedi, in silenzio sotto una fitta pioggerella che penetrava le ossa e ci fece per di più battere i denti. A sera inoltrata fummo condotti in una vecchia scuderia e costretti a riposare sul nudo pavimento dove non fu possibile chiudere occhio per la rigidissima temperatura. Durante la notte si scatenò una bufera di nevischio che penetrava nella vasta stalla priva di vetrate.

Al mattino più intirizziti che mai, ci chiamò un ufficiale SS e montati sopra un autocarro ci dirigemmo alla stazione di Verona. Arrivato il treno ci fu dato ordine di salire e procedemmo alla volta di Trento. Quale la nostra destinazione? Nessuna risposta. Ed eccoci al Brennero. Addio dolce Patria, addio terra natale, addio persone care il cui ricordo per sempre porterò nel cuore. […]

Hinnsbruck: siamo in terra tedesca. Ecco chiaro il nostro destino: un campo di concentramento.

L’arrivo nel lager di Dachau.

Dopo breve sosta il treno lentamente si muove in mezzo alla neve fiancheggiato da pittoresche pinete. Il poetico paesaggio non ci commuove, siamo stanchi. Dalla mia valigia estraggo il Breviario, ma gli SS mi impongono di riporlo e mi impediscono di pregare affermando che nulla ormai può sopra di me Iddio dal momento che sono caduto nelle loro mani. Neppure qui condivido le idee dei tedeschi, ma devo obbedire e mi accontento di intrattenermi con Dio nel segreto del cuore.

Ed eccoci a Monaco, sono le ore 18; da dieci ore si viaggia e desidereremmo tanto mettere piede a terra. L’ordine tosto ci viene dato e con molta lestezza ci dobbiamo inquadrare sotto l’ampia volta della stazione di monaco per attendere un nuovo treno. Quale sarà? Alle ore 19 arriva un trenino che reca la scritta “Dachau”; si monta e la scritta del treno ci dice che la nostra ultima tappa è giunta, tappa che per molti sarà la prima stazione di un penosissimo calvario.

Erano le ore 20 del giorno 29 febbraio 1944 quando il treno giunse alla stazione di Dachau. E’ Dachau un grazioso paesino della Baviera tra Monaco e Asburgo. Le bellezze naturali di cui il Signore rivestì l’altopiano bavarese troppo sono in contrasto con il campo di tortura, di sterminio e di morte che renderà infame il nome di Dachau nella storia. Discesi dal treno […] siamo schierati fuori della pensilina della stazione; vorremmo muoverci e camminare, ma dobbiamo attendere il furgoncino cellulare che ci porterà al campo di concentramento. Le guardie SS che sono alla nostra custodia ci danno l’impressione di soddisfatti cacciatori che cantano vittoria sulla loro preda.

Arriva il furgoncino, mentre il rigido venticello notturno già ci faceva battere i denti. Montati lestamente e prontamente rinchiusi, compiamo, l’uno addosso all’altro, il breve tratto di strada (quasi due chilometri) che separa la stazione di Dachau dall’ingresso al campo. Ci siamo. Si apre lo sportello della macchina e lo sguardo nostro è offuscato da abbagliantissima luce. Sono potenti i riflettori che mantengono una illuminazione a giorno in modo da potere individuare nel campo stesso il minimo movimento.

Il campo di concentramento di Dachau […] è formato da un vasto recinto di forma rettangolare che misura 25.000 mq. di area. Vi si accede per una porta tozza che da l’impressione di un forte e sembra rechi la scritta: “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Un’alta mura, sormontata per giunta da una folta rete di filo spinato, tutto lo circonda. Attraverso quel filo circola la corrente elettrica ad alta tensione. Attorno alle mura, dalla parte interna si aggira un largo fossato sempre ripieno d’acqua.

Il vasto campo rettangolare è tagliato da un ampio stradone fiancheggiato da altissimi pioppi. D’ambo i lati della strada sono allineate in forma simmetrica trenta baracche dallo scheletro di legno e le pareti a copertura di eternit. Esse misurano m. 20 x 10 e sono divise in quattro stanzoni. Miseri e scomodi i servizi igienici compresi entro la baracca. Ognuno dei quattro reparti è suddiviso in due stanze, dove si mangia, si dorme, si soffre e si muore.

Fatti uscire con tanta fretta dal furgone fummo inquadrati davanti all’ingresso, messi sull’attenti e comandati di fare il saluto come ad un sacrario o ad un monumento. In silenzio, perché ormai l’ora era tarda, entrammo nel campo. Era a riceverci il capo che si presentò con lo scudiscio in mano facendoci raccomandazioni come se avesse avuto dinanzi venti fondi di galera. Col cappello in mano, reggendo le valigie degli indumenti che da Venezia ci hanno accompagnato fino a Dachau, veniamo condotti entro un grande salone. E’ il luogo della disinfezione che serve anche da bagno comune. L’ambiente è freddo. Il capo del campo ci sta vicino, ci fiuta come un cane e tosto cambia atteggiamento.

Chi è costui? E’ un deportato politico al quale il comandante SS ha affidato la direzione interna del campo. E’ un veterinario di Berlino caduto in disgrazia di Hitler e dei suoi satelliti per divergenze di idee. Sembra abbia l’impressione di governare una scuderia di cavalli. Quell’uomo ci ha dato subito un pezzo di pane. Come mai tanta cortesia? Ha fiutato bene. Egli vuole dei doni prima che domani gli SS ci rapiscano ogni cosa. […]

Un giovane sacerdote austriaco, da vario tempo detenuto in quel campo, stava vestendosi dopo il bagno al momento del nostro arrivo. Eludendo la vigilanza del capo egli si avvicinò e parlando un buon italiano ci salutò. Pensate quante cose avremmo voluto domandargli sulla vita dei deportati ed egli, più con gesti che con parole, ci fece comprendere che Dachau era un macello di carne umana.

Il primo ordine che mi venne impartito fu quello di smettere l’abito ecclesiastico e di indossare vesti civili. Che tormentosa imposizione! […] In quella notte terribile il mio pensiero ritornò al 20 aprile 1924 quando, nel giorno di Pasqua, nella mia piccola chiesa di campagna, attorniato dai familiari e compaesani, io levavo l’abito secolare per indossare la veste benedetta. […]

La stanchezza ad un tratto mi fece chiudere gli occhi e mi svegliai quando verso il mattino vi fu sbatacchiar di porte. Che cos’era avvenuto? Erano giunti da Udine 150 partigiani che in quella città erano stati catturati. Dopo un viaggio assai periglioso, essi erano giunti ad un posto così infelice. Spinti e bastonati, essi attesero con noi lo spuntar del giorno, perché si iniziasse la tormentosa operazione della spogliazione e della disinfezione. […]

1 marzo 1944: divento un numero.

Alle ore 5, mentre tutto era ancora avvolto nella tenebra della notte, un lungo segnale di fischietti aveva fatto riversare sulla “piazza d’appello” tutti i prigionieri in forza nel campo. Erano quasi 30.000 povere creature sfigurate dai maltrattamenti e dalla fame che male si reggevano su se stesse. Per quasi un’ora se ne stettero i prigionieri a capo scoperto sotto la neve, per attendere l’arrivo del comandante S.S. che doveva accertarsi che durante la notte nessuno fosse fuggito. L’operazione dell’appello era lunga; durante la notte molti erano morti e bisognava farne l’accertamento, registrarne la matricola. Anche gli ammalati che non erano ancora accolti nel “Revier” (baracche di morte) dovevano fare la loro comparsa sulla piazza di appello. Che scene pietose! Dopo l’appello i detenuti passavano sotto la guida dei loro capi per l’ingaggio al lavoro. Gli invalidi e coloro che erano in attesa di trasferimento facevano ritorno alle baracche, sempre a disposizione ed all’arbitrio dei comandanti.

Quando la piazza fu sgombrata, cominciò per noi l’operazione della spogliazione e della disinfezione. Spogliati dei nostri abiti fummo mandati all’aperto e tenuti per qualche tempo sotto la neve. Erano i primi passi sul nostro calvario. Entrati nuovamente nel salone del bagno e subita la tortura della disinfezione ricevetti il battesimo di prigionia e mi fu imposto il nome “64.718”. Ogni prigioniero era un numero. Sfortunatamente in una corsa fatta sulla neve perdetti il piccolo cartellino numerato e dovetti rifare parecchi giri prima di rintracciarlo.

A mezzogiorno l’operazione era finita e fui assegnato con i miei compagni di Venezia e di Milano alla baracca n° 15, I° reparto. Finalmente arriva un carro di vesti. La divisa del campo consiste in un paio di calzoni e giacca di juta zebrati. Ma i magazzini erano ormai vuoti ed allora il comando del campo deve usufruire di quanto i prigionieri prima di noi avevano depositato nel giorno del loro ingresso. Sono le vesti dei poveri ebrei che erano entrati nudi nelle camere a gas per morirvi, e di lì poi passati al forno crematorio. Vi sono vesti di fanciulli, di donne e di uomini anziani. Mi furono assegnati capi di vestiario inadatti alla mia corporatura, ma non si poteva ragionare e bisognò con tutta fretta vestirsi e recarsi alla baracca assegnata. Indossati quegli abiti non mi riconoscevo più; durai fatica a riconoscere anche i miei compagni di cattura e di prigionia tanto erano mutati.

Alla baracca n° 15 trovai un mio parrocchiano antecedentemente internato, con il quale ci vollero otto giorni prima di riconoscerci, nonostante i quotidiani avvicinamenti. Entrati nella baracca assegnata i prigionieri non potevano uscire se non dopo quaranta giorni, durante i quali venivano fatti interrogazioni ed accertamenti sulle identità dei singoli. Così fummo mantenuti chiusi e vigilati entro la baracca. Il nostro capo era un colonnello austriaco antihitleriano e di sentimenti abbastanza buoni; era però assai ligio ai comandi delle guardie SS che egli non voleva maggiormente inimicarsi.

Padre Carlo Manziana ed io fummo i primi sacerdoti italiani ad entrare nel campo di concentramento di Dachau. La notizia del nostro arrivo si era diffusa rapidamente ieri sera per voce del sacerdote austriaco che ci aveva veduti nel salone del bagno al momento del nostro arrivo.

Insieme alle molte migliaia di civili allora internati a Dachau, vi erano oltre 2.000 sacerdoti di tutte le nazioni. Oltre mille erano polacchi. Ma quanti prima del nostro arrivo erano morti! I sacerdoti occupavano due baracche: m° 26 e n° 28. Nella baracca n° 26 erano raccolti i sacerdoti di tutte le nazioni, esclusi i polacchi che da soli occupavano la baracca n° 28. I sacerdoti tedeschi, pur essendo anche loro internati, godevano da qualche tempo del beneficio d’una stanza adibita a Cappella, dove si conservava l’Eucaristia e dove clandestinamente potevano accedere anche i sacerdoti delle altre nazioni. Era assolutamente proibito l’ingresso ai laici.

Ogni mattina assai per tempo un sacerdote tedesco celebrava la Santa Messa e poi la Cappella veniva chiusa e diveniva sala da lavoro. […] La Cappella, oltre che ai sacerdoti di rito cristiano cattolico, serviva anche ai pastori protestanti che erano numerosi, ai greci ed a tutti i riti i cui ministri desiderassero esercitare atti di culto.

Il lavoro.

Il capo baracca mi ha chiamato in disparte e mi ha permesso di uscire per poter assistere alla S. Messa […] e fare la S. Comunione. Da otto giorni non mi comunicavo. […] Quasi una settimana è trascorsa e gli interrogatori si succedono agli interrogatori. Non sono passati che pochi giorni di quarantena e già si incomincia lo smistamento per l’ingaggio al lavoro nelle miniere. […]

Il livello della temperatura si abbassa sempre più. Alla notte si dorme entro un saccone di carta, speciale lavorazione olandese; durante il giorno siamo costretti a fare marcie davanti alla baracca addestrandoci a conoscere la terminologia tedesca. Siamo sfiniti.

Ogni giorno partono dalla baracca centinaia di prigionieri per lavorare nei campi di distaccamento. E venne pure la nostra volta; anche padre Carlo ed io andremo a lavorare nella Lorena. A chi ci ha chiamato per la partenza abbiamo fatto presente che eravamo sacerdoti. Quale la risposta? Un pugno alla schiena che mi fece ruzzolare sulla neve. “Arbeiten! Arbeiten!” gridava la guardia mentre mi rialzavo da terra. A stento mi trascinai alla baracca di controllo per la destinazione al lavoro.

Fui trovato idoneo e destinato alla miniera. Nei giorni di attesa si presentò un uomo di bassa statura, magro, col volto sorridente, dall’apparente età di cinquant’anni, il quale voleva conoscere i sacerdoti italiani. Padre Carlo ed io ci presentammo ed egli vide sul nostro volto i segni della preoccupazione. Ci disse parole tanto soavi e ci rincuorò così profondamente che ci sentimmo sollevati. Parlava un buon italiano; egli ci disse che non saremmo partiti e che nulla avrebbe risparmiato per farci rimanere in quel campo a confortare tanti giovani italiani destinati alla morte. Dopo il breve e furtivo colloquio domandai il nome di quel prigioniero ed egli sorridendo rispose: Giuseppe Beran. Ci disse poi che era sacerdote cecoslovacco, da due anni detenuto nel campo di Dachau. Era la sera del 15 marzo 1944; e da quella sera mons. Beran, professore all’Università di Praga e rettore del Seminario Arcivescovile, non mancò di farci la sua visita giornaliera; quanto conforto da quegli incontri!

Ed ecco che la vigilia di S. Giuseppe, mentre un grosso convoglio di internati partiva per le miniere della Lorena, mons. Beran mi aveva ottenuto di passare alla baracca n° 26 con altri 1.000 sacerdoti di ogni nazione. Non mi mancarono da quel giorno i conforti religiosi, poiché di nascosto molti sacerdoti amministravano e recavano con sé quotidianamente l’Eucaristia, come Tabernacoli ambulanti. Dalla baracca dei sacerdoti si poteva uscire per qualche ora del girono e camminare lungo i viali del campo.

La stagione era ancora rigida, ma tutto si sopportava pur di passare qualche ora fra i giovani italiani. Quanti buoni figlioli ho incontrato! Il dolore li aveva fatti più seri, più riflessivi, più fiduciosi in Dio. Da vari mesi giovani italiani erano prigionieri a Dachau, ma non avevano ancora veduto un sacerdote connazionale. “Ci spiace assai vederla in campo di concentramento”, mi disse un giorno un bravo ragazzo, “ma se sapesse quanto siamo contenti di averla con noi”. I nostri colloqui avevano sempre gli stessi argomenti: la fame, il freddo, i maltrattamenti, la famiglia, la mamma, la fine della guerra. Intanto passavano i giorni e con lo spuntar del mese di aprile sgelarono le nevi per cui mite si fece la temperatura. […]

Da quaranta giorni mi trovavo in baracca quando una sera mi sentii chiamare per essere ingaggiato al lavoro. “Che lavoro sarà?” mi domandavo, ed alla mia domanda dette risposta un sacerdote tedesco: “Lavorare nei campi”. Attorno al campo di Dachau, e precisamente dalla parte sud-est, si trovava un vivaio detto “Plantage”, con una superficie di 20 kmq. condotto da una società di SS. In quel vivaio lavoravano 1.200 sacerdoti di ogni nazione e 300 professionisti. La mattina del 13 aprile 1944 fui aggregato con altri sacerdoti e, varcata la soglia del campo, mi trovai in mezzo al vivaio. Pensavo ad una apparente libertà, ma invece gli SS, armati fino ai denti, erano alle spalle dei lavoratori che oltre al timore per quelle guardie, dovevano custodire una paura particolare per ferocissimi cani che venivano sguinzagliati contro chi facesse un movimento sospetto.

Arrivato dinanzi ad una vasta fattoria da cui partivano i vari comandi di lavoro, attesi la mia assegnazione. Eravamo in quel giorno 100 sacerdoti che per la prima volta si presentavano a lavorare. Ci fu tosto consegnata una vanga ed a ciascuno fu assegnato un tratto di terreno da vangare. Dopo due ore un ordine improvviso ci chiama ad altro luogo. Con la vanga in spalla si compie un lungo tratto di cammino per un viottolo campestre. Si gira a sud del campo e ci avviciniamo al forno crematorio. Le tozze ciminiere dei forni fumavano.

Siamo in silenzio ed ogni tanto ci fissiamo l’un l’altro negli occhi chiedendoci reciprocamente con muto linguaggio: “Andremo anche noi ad incrementare quel fumo?”. Ed eccoci davanti ad un alto cancello che ad un cenno degli SS che ci accompagnavano si apre. Siamo entro un nuovo recinto, ma incolto e quasi squallido. Si vedono cumuli di terra lunghi che lasciano pensare a coperture di rifugi sotterranei. Essi non mostrano però nessuna apertura ai lati. Sacerdoti polacchi e tedeschi si scambiano questa parola: “compost”, che significa concime. Il gruppo di cento sacerdoti lavoratori si avvicina ad una baracca e riceve l’ordine di fermarsi; quindi avuta ognuno una carriola, ci fu imposto di trasportare quel concime sopra un campo vicino che poi avremo dovuto dissodare. Il silenzio dei lavoratori si fa glaciale. Tutti abbiamo intuito di che si tratta. Il “compost” è formato dalla cenere di migliaia e migliaia di poveri morti passati per il forno crematorio. Ora quelle ceneri, unite ad ingredienti chimici e ad altre sostanze naturali, serviranno per la concimazione della terra.

Con quale strazio dell’animo io riprendessi ogni giorno con i colleghi di prigionia il consueto lavoro al “compost” non lo saprei ridire. […] Come inorridiva l’animo nostro di fronte a tanta profanazione! Quante umane creature avevano prodotto quelle ceneri! […] Il penoso lavoro durava da parecchi giorni quando alcuni sacerdoti polacchi pensarono di dire al capo del gruppo di lavoratori che quel concime non era adatto allo scopo e che anzi sarebbe stato nocivo alle colture. La cosa fu presentata con tanta serietà e copia di argomenti che il capo credette e diede immediatamente ordine di sospendere il lavoro per poter riferire la cosa al comando SS.

Nel vivaio dove i prigionieri lavoravano c’era un laboratorio chimico, dove esperti in materia potevano dare responsi sicuri. Durante la sospensione del lavoro i sacerdoti auspicavano una risposta che fosse in favore di quelle ceneri benedette, ma ahimè! Il capo giunse dopo mezz’ora con questa risposta: “ottimo concime, ser gutt”. Delusi dovemmo continuare il nostro lavoro che durò più di un mese, dopo il quale i cumuli di “compost” cominciarono a diradare e le povere ceneri avevano letteralmente coperto chilometri e chilometri di terreno. Intanto il crematorio continuava la sua quotidiana fatica e nuovi cumuli si andavano formando.

Durante il tempo del lavoro si udivano in sordina le più disparate notizie sulla guerra. Tutti auspicavano e presagivano una fine veloce, ma intanto gli SS infierivano contro i poveri prigionieri. Terminato il lavoro di concimazione, ci fu imposto di vangare quel terreno concimato ed il faticoso compito durerà per varie settimane. Alla vangatura seguì l’erpicatura e con un giogo di ferro sulle spalle, dovemmo trascinare l’erpice per lunghe ore della giornata, al termine della quale le nostre forze erano esauste. […]

La vita del campo.

La vita del campo aveva preso il suo monotono colore. Ogni mattina alle ore 3:30 suonava il segnale della sveglia per la baracca n° 26, dove i sacerdoti tedeschi potevano celebrare la S. Messa. Era possibile allora anche per noi sacerdoti italiani (eravamo in questo tempo solo in 3) nasconderci in mezzo ai confratelli tedeschi ed assistere con loro al Divin Sacrificio facendo la S. Comunione.

Fin dai primi giorni mi ero procurato una scatolina metallica di cui mi servivo per portare sempre con me l’Eucaristia. Un bravo sacerdote tedesco, custode della baracca Cappella, mi forniva di nascosto le Sacre Specie e così mi fu possibile ogni giorno amministrare nascostamente l’Eucaristia ai prigionieri che La desideravano. Tutto doveva essere fatto in forma clandestina poiché le venticinque nervate comminate dagli SS avrebbero condotto sacerdote e fedele al crematorio.

Alle ore 4:30 suonava un piccolo fischio e tutti i prigionieri si adunavano in una vastissima piazza entro il campo (“appel plaz”) per il quotidiano appello. Che tormento! Questa funzione si faceva per tre volte al giorno, con qualunque tempo ed in qualunque stagione. Anche i moribondi dovevano essere portati sul vasto piazzale per assistere al lunghissimo appello. Comparivano così normalmente per tre volte al giorno 30.000 persone che, specie nella rigidissima stagione invernale, gli SS si divertivano a lasciare ritti sull’attenti, in silenzio, per qualche ora. Non rare volte avveniva che povere creature si spegnessero sulla piazza per sfinimento e per assideramento. Compiuta la tormentosa funzione le schiere dei prigionieri si avviavano al lavoro e vi restavano taluni fino a sera.

A mezzogiorno veniva somministrata la “zuppa”, mistura di rape e carote, ed alle 13 si doveva regolarmente riprendere il lavoro. Molti lavoravano senza interruzioni anche nei giorni festivi, costretti a dimenticare la loro dignità di uomini e di cristiani. […]

La stampa quotidiana o periodica era severissimamente proibita; due soli giornali entravano in campo, perché di impeccabile spirito nazista. Quei giornali cantavano le immancabili vittorie tedesche ed assicuravano il finale trionfo della Germania. Buoni intenditori invece ci assicuravano che bisognava ritenere il contrario di quanto i fogli affermavano. […] Che gli alleati avessero intensificato la loro azione bellica contro i tedeschi, lo provò un tremendo bombardamento aereo su Monaco il 13 giugno 1944, festa di S. Antonio. Dachau era nella sfera di azione, distando da Monaco solo una decina di chilometri in linea d’aria. Quantunque da volantini inviati da aerei inglesi fossimo stati assicurati della incolumità del campo, pure in quel giorno ci assale un grave timore, perché l piazza militare degli SS esistente nelle vicinanze del campo venne presa di mira con particolare accanimento. Molti prigionieri erano in quell’ora già ai posti di lavoro e tutti cercarono di mettersi in salvo; però, nonostante la nostre sollecitudini, quarantadue prigionieri morirono sotto le macerie e molti furono estratti gravemente feriti. Per tutto il tempo del bombardamento su Monaco restai con i compagni di lavoro nascosto in un fosso che attraversava il vivaio dove compivamo il nostro quotidiano lavoro […]. La morte intanto sembrava avesse cento mani per strappare dal campo della vita tante giovani esistenze. Erano mani della morte la camera a gas, la pistola degli SS, le forche sempre pronte, lo scudiscio sempre in azione, la fame e malattie di ogni genere.

Il campo sembrava un porto di mare; ogni giorno si vedevano facce nuove che nel giro di breve tempo scomparivano per dar luogo ad altri morituri. […] Il vuoto lasciato dai morti veniva tosto riempito dal numero esuberante di prigionieri che aumentavano ogni giorno. In un primo tempo tennero il primato del numero i polacchi, poi i russi, quindi i francesi. Dal giugno gli italiani hanno cominciato ad affluire in numero sempre maggiore. Con le deportazioni in massa dall’Italia, i tedeschi volevano punire quanti si mostravano ostili ai loro piani e alla loro tattica di guerra. […]

Intanto le nostre famiglie erano in trepidazione per la nostra sorte; non ci era permesso inviare una riga, dare una segnalazione della nostra esistenza. Che martirio per le nostre mamme, per i nostri cari lontani; che duplice prigionia per i poveri internati. […] Le voci di sbarchi anglo-americani in Francia si accoppiavano a notizie di particolari precauzioni da parte dei tedeschi. Dette voci erano confermate dall’internamento di personalità politiche, militari e religiose. […]

L’inverno del ’44.

Il comandante supremo delle SS Himmler, al cui comando si riempivano e si sfollavano in breve ore i campi di concentramento, aveva disposto che tutti i sacerdoti internati nei vari campi fossero riuniti a Dachau. Le baracche adibite ai sacerdoti deportati da tutte le parti del Reich divennero incapaci di contenere le povere vittime. […] (Fra i nuovi arrivi ci fu anche) padre Giuseppe Kentenich, animatore instancabile della congregazione dei PP. Pallottini. […] Egli riuscì a convertire un SS per mezzo del quale poteva far uscire dal campo relazioni epistolari, lettere di esortazione, notizie precise. Sciaguratamente venne scoperto e si temette per la sua vita; ma, dopo un sommario processo, venne condannato soltanto a quindici giorni di “tubo”. Il “tubo” era un supplizio consistente nella chiusura del prigioniero colto in flagrante entro un tubo di cemento armato del diametro di un metro, senza luce, con scarsissima aria, dove veniva somministrato un po’ di pane e di acqua. Quando padre Kentenich uscì da quel supplizio sembrò invecchiato di 10 anni, dimagrito, quasi irriconoscibile. Promise al comandante degli SS di non scrivere mai più e la sera stessa della sua liberazione dal “tubo” lo si vide vergare lettere per Schonstadt, il Santuario della Mater Admirabilis. […]

Sabato 7 ottobre 1944 si spalancarono i ferrati portoni del campo per accogliere nelle sue fauci di morte uno stuolo di giovani italiani. Erano oltre 700, rastrellati in varie zone d’Italia e già concentrati in un campo a Bolzano. Alla sera, compiuta una sommaria opera di disinfezione, i poveri italiani entrano nella baracca di quarantena. In grazia di un’amicizia col segretario della baracca, p. Leo Roth dei Domenicani, austriaco di origine e da vario tempo nel campo, mi fu possibile la sera stessa incontrarmi con i cari connazionali. Quanta cordialità! Quante scambievoli domande! I deportati erano in buona parte dell’alta Italia, dove più tenace era divenuta la resistenza, e più tremenda e feroce la repressione. Le notizie che recavano nel campo erano poco confortevoli. L’inverno che avanzava precoce faceva temere impossibile lo sbarco degli Alleati in Francia e quel ritardo voleva dire per noi amaro prolungamento di patimenti e per molti la perdita della vita.

La vita di prigionia non assumeva aspetti nuovi; essa aveva sempre la stessa colorazione: fame, freddo, lavoro forzato, bastone, morte, crematorio. Nei primi giorni di novembre parecchi casi di tifo petecchiale si erano sperimentati ed il terribile morbo diveniva di giorno in giorno sempre più minaccioso. L’aumentato numero delle vittime, il bombardamento più scarso e la mancanza assoluta di provvedimenti igienici erano per i parassiti favorevolissime condizioni per divenire nel campo dominatori e distruttori. Nessuna cura fu usata, nessun rimedio fu provveduto. […] Furono istituite commissioni per il quotidiano “Lous controlle” (controllo dei pidocchi) e quelle commissioni avevano ogni giorno l’ingratissimo compito di controllare la presenza di parassiti sul corpo dei fratelli. La penosa ed ignominiosa operazione si compiva ogni giorno senza riguardo di tempo o di luogo. Coloro che erano trovati “positivi”, dovevano subire una tormentosa purificazione più atta a far morire gli uomini che gli animali. […]

La stagione rigida aveva ridotto il numero dei lavoratori ed aumentato il numero dei poveri esseri umani che languivano nelle fredde baracche. […] Nonostante la falcidia operata dalla morte, la popolazione del campo era sempre in aumento. Nuovi trasporti di uomini giungevano a quel macello di vittime umane man mano che la sconfitta si abbatteva inesorabile sul popolo tedesco. […]

E venne il Natale, giorno radioso, pieno di luce recata da un sole che pareva di primavera, i cui raggi si riflettevano sullo spesso tappeto di neve caduta abbondantemente fino al giorno prima. Voci di una “zuppa” abbondante erano sulla bocca di tutti. La rivelazione era stata fatta da un prigioniero che lavorava in cucina. A mezzogiorno la voce fu confermata dall’apparire dei fumanti recipienti di ghisa ripieni della tanto sospirata “zuppa di maccheroni”. Fu veramente gran festa quel giorno. […]

Mentre volgeva al tramonto l’anno 1944, il freddo si faceva più intenso ed il numero delle vittime cominciò a crescere di ora in ora. Dinanzi alle baracche degli invalidi e dei colpiti dal tifo il cumulo dei cadaveri cresceva sempre più, ed essendo il “carro della morte” impossibilitato a transitare per la molta neve, i cadaveri restavano per parecchi giorni coperti solo dal niveo lenzuolo, in attesa di essere portati al crematorio. Che spettacolo impressionante! […]

“Quando finirà questa vita o meglio questa agonia di morte?”, ci si andava chiedendo. Le notizie più disparate e spesso contraddittorie si udivano nel campo circa la situazione della guerra. Tutti vantavano fonti sicure di informazione, ma intanto il disagio cresceva. Sul volto truce e corrugato degli SS sembrava dipingersi una sempre crescente preoccupazione. L’aumentato numero dei poliziotti era un segno evidente. I poliziotti del campo erano fior di canaglie, scelti fra gli stessi prigionieri, manigoldi spietati della più brutta specie, destinati dagli SS a fare la spia fra i prigionieri e a denunziare la minima infrazione al rigido regolamento del campo.

Un episodio disumano.

Tornando nei primi giorni di febbraio dal campo di lavoro fui spettatore di un gesto raccapricciante. Un povero prigioniero si era avvicinato ad una baracca di quarantena per porgere un tozzo di pane nero ad un suo amico che soffriva una fame tremenda. Essendo proibito con i nuovi arrivati ogni contatto, si accorse del gesto un poliziotto che, superbo della scritta recante sul braccio: “lager polizei”, voleva dare sfoggio della sua capacità. Si avventò con la ferocia di una belva sul povero prigioniero che stava col tozzo di pane nero in mano e con un grosso bastone cominciò a picchiarlo gettandolo presto a terra in mezzo al fango. Quel gesto bestiale eccitò la più giusta indignazione della squadra dei sacerdoti che tornavano dal lavoro per il magro ristoro del mezzogiorno. Il “polizei” si avventò allora sui poveri sacerdoti e scaricò sopra di loro gli improperi più ignominiosi. Ma un coraggioso ministro di Dio reagì fermandogli il braccio e replicandogli: “Non ti vergogni di fare l’aguzzino?”. Il “polizei” perdette il lume della ragione e tra il povero sacerdote e la belva di impegnò una lotta di sonori pugni. Era una lotta per la difesa della vita propria ed altrui. Il sacerdote intendeva dare una necessaria lezione a chi si era venduto alla mercé dei nostri assassini. Il “polizei” constatato che il sangue gli grondava abbondante dal naso, pensò bene di cessare la lotta che aveva destato nel campo un grande scalpore. E lo scalpore durò per tutta la giornata; a sera vi fu un’adunata generale dei poliziotti per vendicare il malcapitato collega. Anche gli SS dettero man forte ai “polizei”, nel timore che la cosa non immediatamente repressa potesse diventare scintilla di una rivolta. Furono proposte delle punizioni collettive per tutti i sacerdoti internati; poi invece prevalse l’idea di punire il solo colpevole. Fu chiamato il capo baracca, egli pure sacerdote, tale Friderick, e gli fu imposto di consegnare il colpevole. Don Friderick si rifiutò ed allora il corpo dei poliziotti entrò nella baracca n° 26 dove si trovavano raccolti tutti i sacerdoti e, ordinato immediatamente il raduno nel viale antistante la baracca, ad uno ad uno sfilammo dinanzi al “polizei” dal naso cerottato; dopo lunga sfilato, purtroppo egli riconobbe chi lo aveva conciato per le feste, quantunque il sacerdote avesse astutamente cambiato la giacca con un suo confratello, indossando pure un cappello diverso ed inforcando sul naso un paio di occhiali. Identificato il povero sacerdote fu tirato fuori dalla fila con urla di gioia dei manigoldi e con bestiali imprecazioni. Egli non mostrò nessuna reazione e si lasciò serenamente trascinare e maltrattare come Cristo dai suoi sgherri. Fu accompagnato alla “Straff-compagnie”, la terribile compagnia della morte, e non lo vedemmo più tornare nel campo. Il suo gesto non era stato di vendetta, ma di difesa per i fratelli sofferenti. […]

L’epidemia di tifo.

Alla cattiveria umana che fa scomparire nella sua voragine vittime senza numero, si aggiunge tremenda la spada del tifo. L’epidemia si è diffusa come il fuoco che cade sull’arida paglia. Quanta desolazione! I morti non si contano più. Ogni mattina le povere vittime cadute durante la notte vengono ammucchiate nei piccoli viali antistanti le baracche in attesa che il carro della morte venga per portarle al crematorio. […] Quei cadaveri giacciono buttati per terra senza un fiore, senza una lacrima, senza una preghiera, senza un anno che ne copra la deforme e macabra nudità. Li copre la neve lentamente e silenziosamente, tessendo una coltre candida e soffice. Ma come è fredda, mio Dio, quella coperta, quanto è gelida. Una preghiera mi sgorga dal cuore, un proposito si fa sempre più ferreo. “Se la Divina Misericordia ci concederà di fare ritorno in Patria, in quel suolo benedetto ed amato, noi vi ricorderemo o morti generosi!”. Passando furtivamente accanto a quei cadaveri posso scorgere qualche viso noto di conoscente, e in un piccolo “note” registro l’avvenuto decesso. […]

Verso la fine di febbraio il comandante degli SS si rivolse alle baracche dei sacerdoti chiedendo “volontari” per l’assistenza dei moribondi. Sacerdoti di ogni nazione, dimentichi del pericolo, incuranti della loro salute, sospinti dalla carità di Cristo e dall’amore verso i fratelli, compongono immediatamente la squadra dei volontari e si mettono a disposizione dei moribondi. […] Siamo contenti di prestare le nostre deboli forze ai fratelli più deboli di noi. Dio ci assisterà. […]

Il campo di concentramento sembra un campo di battaglia dove sono in lotta fra loro la vita e la morte. Quante vittime! Quanto dolore! […] I nuovi venuti raccontano notizie che fanno sperare prossima la disfatta dei tedeschi e quindi prossima la fine della guerra. Ma noi resisteremo ancora? Fino a quando? […]

Verso la fine della guerra.

Dai primi giorni del mio ingresso a Dachau porto con me l’Eucaristia. Ecco la sorgente di ogni conforto! Ecco la sorgente di ogni forza! Ho portato le specie Eucaristiche prima in piccoli quadratini di carta bianca, ora in una scatolina che don Enzo Neviani di Reggio Emilia mi ha confezionata con le sue mani traendola da una scatola di sardine. Come mi è caro anche ora questo cimelio! […]

Una novità: dalla baracca n° 26 i sacerdoti italiani passano alla baracca n° 28 con i sacerdoti polacchi. Pazienza. Poveri polacchi! Sono tanto stretti, male sistemati. Eppure bisogna andare. Siamo bene accolti. Nella baracca n° 26 c’era una povera Cappella dove si poteva ogni giorno assistere alla Santa Messa; ora non più. Ai preti polacchi era vietato celebrare la S. Messa perché un giorno un prete polacco fu scoperto mentre dava la Comunione ad un suo compatriota morente, ed allora tutti i polacchi furono castigati senza misericordia. “Non aver paura”, mi disse un camaldolese polacco. “Non aver paura. I tedeschi sono più cattivi che furbi; i polacchi più furbi che cattivi”. Lo imparai infatti per esperienza. […]

Siamo da parecchi giorni nella baracca n° 28, pigiati sempre più per l’aumento di popolazione del campo. Man mano che le truppe alleate avanzano, i tedeschi sgombrano i campi e concentrano i prigionieri nei campi maggiori. Quell’ammassamento è veicolo di estensione per il morbo che già infuria. I pidocchi ci hanno assaliti a battaglioni e le loro vittime non si contano più. […]

Il nazionalismo ha nel campo un carattere spiccato. Ogni nazione è qui rappresentata. Gli italiani ed i russi sono oggetto di disprezzo particolarissimo. Per quella “riga” che portano in testa, sono da tutti segnati a dito ed oltraggiati. I russi sanno reagire; gli italiani tacciono. I tedeschi insultano come “Badogliani” i deportati, gli internati delle altre nazioni ci chiamano “Fascisti”. […]

Intanto le truppe alleate hanno scatenata l’offensiva e si teme che il comando supremo delle forze militari tedesche, dovendo subire la peggio, si vendicherà uccidendo tutti i prigionieri. Questa è stata la sorte di altri campi di concentramento e la nostra non sarà diversa. Ma quando più gravi si fanno i pericoli, più fervida si accende la fiducia in Dio che mai abbandona chi in Lui confida. Com’è duro lottare con la morte! […] Il campo è popolato più di morti che di vivi; eppure uno spettacolo così triste non commuove i nostri aguzzini che, ignari della sorte che tra breve li attende, non desistono dalla loro ferocia. […]

Verso la fine di marzo sono già cessate le nevi e la primavera porge alla natura il suo primo tiepido bacio. Nel vivaio si intensificano i lavori: si dissoda la terra e si semina. Mi sovvengono le parole dell’Apostolo: “Uno semina ed un altro raccoglierà”. Col giogo sulle spalle dobbiamo dissodare ed erpicare il terreno estenuati dalla fame e dalla fatica. La terra sembrava talvolta commuoversi di fronte allo stato compassionevole dei propri relegati ed ecco apparire qualche cicoria selvatica, qualche ciocca verde di altre erbe che possano tacitare gli stimoli impellenti dello stomaco. Si va alla caccia di queste erbe e si stima immensa fortuna il poterne trovare per sfamarsi alquanto. C’è chi pensa ai moribondi delle baracche, perché consunti dalla fame, e si provvede a portare qualche erba anche per loro. Entrare nelle baracche e sentire i rantoli degli agonizzanti, i gemiti dei moribondi, le invocazioni a Dio, a cari lontani, è cosa che strazia l’anima. […]

Il rombo del cannone proveniente da Frisinga annunziava anche ai deportati di Dachau che prossima sarebbe stata la liberazione. Ma da quali avvenimenti il sospirato giorno sarà preceduto? Il primo aprile fu celebrata la S. Pasqua come nelle Catacombe Romane nei secoli delle persecuzioni. Quale spettacolo di fede hanno dato quasi tutti i nostri cari italiani internati in quel campo di morte! […] L’intima gioia dello spirito era subito oppressa da voci sinistre di barbari provvedimenti che i tedeschi avrebbero preso nei riguardi dei deportati; e l’aspettativa non fallì.

Le stragi.

La notte del 14 aprile un telegramma di Himmler arrivava al comandante del campo così formulato:
Quanto segue non dev’essere discusso. Il campo deve essere immediatamente evacuato. Nessun prigioniero deve cadere nelle mani del nemico. I prigionieri sono contro la popolazione civile e devono seguire tutti le sorti di quelli di Buchenwald“. Himmler

Il comandante del campo prese consiglio dai suoi colleghi sul modo di liberare il campo secondo le istruzioni date dal comandante supremo delle SS, quando un secondo telegramma giunse dallo stesso Himmler la sera del 17 aprile che toglieva ogni dubbio al comandante. Il testo del telegramma era questo:
Evacuare il campo; resta l’infermeria. Liquidare tutti!“. Himmler

Non vi era più dubbio; tutti i prigionieri dovevano essere uccisi. I poveretti raccolti nelle baracche che servivano da infermeria, ripiene di morti e di moribondi, dovevano restare come testimonianza dell’umano trattamento da parte degli SS verso i deportati.

Il diabolico ordine non tardo che poche ore per entrare in esecuzione. Nel profondo silenzio della notte del 17 aprile 1945, mentre i poveri prigionieri male sistemati su duri giacigli e tormentati dalla fame, dai dolori e dai parassiti invocavano la carezza del sonno per poter dimenticare un istante il loro patire, entrarono nelle baracche feroci come iene alcune guardie che col fucile spianato intimarono a tutti di alzarsi. Fummo proibiti di mettere alcunché per coprirci; l’ordine era perentorio: bisognava inquadrarsi nel cortile antistante ogni singola baracca in attesa di ordini. I movimenti dovevano essere compiuti con la massima lestezza ed in silenzio. Le più disparate ipotesi si facevano su quell’ordine notturno e così draconiano.

Ma tutto apparve chiaro quando si sentirono provenienti dal cortile del crematorio i colpi di mitraglia con la quale si doveva dar morte a tante povere creature innocenti. I poveri deportati della baracca n° 30, piena zeppa di invalidi, di creature già mutilate e deformi, furono le prime vittime di quella notte infernale. Esaurite le vittime furono chiamati i prigionieri della baracca n° 28, e pari a quelli della n° 30 fu la sorte di quei prigionieri.

Il tempo passava; era giunta l’ora nostra. Oltre 1.000 sacerdoti avevano attesa quell’ora di morte rimettendo la vita nelle mani di Dio […] Senonché alle ore 1:30 di quella notte pervenne un ordine immediato di sospensione del decreto di Himmler e per quella notte fummo salvi. Deo gratias!

Salvati per miracolo del Cielo dalla strage voluta e predisposta dagli SS, l’incubo della morte era divenuto più opprimente. Con molta fatica si chiudevano gli stanchi occhi al sonno ed ogni più piccolo rumore ci svegliava col ricordo della fatidica notte. Il giorno 20 aprile, compleanno di Hitler, non vi fu alcuna manifestazione in onore del capo dei nazisti. Quale differenza dallo scorso anno; non bandiere issate, non canti, non evviva all’indirizzo del Fuhrer.

Il giorno seguente un incendio sembrò divampare nei pressi del campo. Le proporzioni diventavano sempre più vaste e a sera il fuoco ardeva ancora. Che cosa bruciava? Era l’archivio del campo dove erano raccolte da oltre 10 anni le memorie tristissime delle barbarie consumate dagli SS; erano i nomi dei due milioni di creature umane massacrate nel campo, erano gli esiti degli esperimenti fatti sui corpi dei poveri martiri.

L’incendio continuò per tre giorni e tre notti, sempre nutrito dall’abbondante materiale. Quante memorie, quanti nomi di massacrati che madri e spose sperano di poter vedere in terra, mentre forse il loro spirito già è immerso nella luce di Dio. Credevano i tedeschi di purgare col fuoco le macchie di tante iniquità?

Sacerdoti polacchi e cecoslovacchi che in campo fungevano da segretari, si erano accordati nel fare duplicati di elenchi, di resoconti ed avevano nascosto con cura ogni cosa entro le viscere della terra. Il materiale nascosto fu portato alla luce dopo la liberazione.

Molti eludendo la meticolosa vigilanza degli SS scrivevano per conto proprio impressioni e ricordi per cui inutile fu ai fini della storia il fuoco acceso dai nostri carnefici. Intanto il giorno della liberazione si avvicinava e le speranze si alternavano al timore nel cuore dei pochi superstiti.

Il trasferimento.

L’appello mattutino, protrattosi per due ore, era stato foriero di novità. Nelle guardie SS si notava un nervosismo ed una irrequietezza non mai osservate fino a quel giorno. Ordini e contrordini si alternavano, e chi ne faceva le spese era la massa enorme di 30.000 prigionieri da due ore tormentati da un venticello tagliente e da una fame che non dava mai riposo.

Finalmente la “macchina umana” si mosse, ma le squadre non erano ancora giunte ai cancelli di uscita che un contrordine tuonò: “Alles in die barachen!”, tutti devono tornare alle baracche!

Nessuno parla, ma una gioia segreta spunta nel cuore; eventi decisivi si vanno maturando. In breve tempo tutti sono nelle baracche; si parla sottovoce e tutti vanno sussurrando ipotesi sui futuri eventi. Mi parve provvidenziale quella sosta dal lavoro che mi dava modo di visitare i poveri moribondi della baracca n° 28. […] Poveri figlioli! Quante sofferenze nelle marcie di evacuazione. Durante la notte molti erano morti di sfinimento e sembravano dormire nella poca paglia che copriva il pavimento. Altri con un filo di voce o con un semplice gesto ci invitavano a piegarci per dirci ancora una parola, l’ultima parola che sulle ali dell’amore doveva giungere al cuore della mamma, della sposa, dei figlioletti. Quante confessioni raccolte. Quante briciole di Sacre Specie Eucaristiche su quelle labbra smorte, su quelle lingue ingrossate dalla febbre! […]

L’opera nostra non era ancora finita che dal Segretario fummo chiamati ed invitati a ritornare alla baracca dei sacerdoti, dove si stavano per impartire nuovi ordini. Che cosa accadeva? Il comandante del campo aveva imposto a tutti di lasciare il campo di Dachau per altra destinazione. Entro il termine di due ore si doveva sgomberare. Con una coperta sulle spalle ci inquadrammo per salire il nuovo calvario. Quanta confusione! Quante supposizioni! Alle ore 11 del mattino, in assetto di partenza, si consumò l’ultima zuppa in piedi e con molta fretta. Alle ore 12 tutti gli internati erano schierati nella vasta piazza d’appello.

Il tempo passava e gli ordini non arrivavano. Verso le ore 14 furono fatte uscire circa 7.000 persone tra russi, ungheresi, ucraini e tedeschi. Fra i partenti erano anche 300 sacerdoti tedeschi facenti parte della baracca n° 26. Dopo l’uscita del primo scaglione, i pesanti cancelli di ferro furono chiusi e a tutti fu dato l’ordine di ritornare nelle baracche. Parola d’ordine era: “Tenersi pronti”.

Al mattino nuova adunata per la partenza. Altri 7.000 dovranno evacuare dal campo. Oggi toccherà anche agli italiani; sono 3.000 che si mettono in partenza. A piccole schiere veniamo condotti vicino all’uscita, dove ci viene consegnato un pane nero con margarina e carne. Donde tanta provvidenza? Tutti consumammo il cibo che doveva bastare per una settimana e la fame non era ancora sedata. Come fu doloroso il distacco dai confratelli sacerdoti, specie dai cecoslovacchi e polacchi! Ci salutarono piangendo, presaghi della nostra fine. […]

Il sole calava e da sei ore attendevamo la partenza, quando un tremendo acquazzone scompaginò le schiere e tutti facemmo ritorno disordinatamente alle nostre baracche. Ed ora che cosa succederà? Sdraiati sul povero giaciglio attendevamo ordini e gli ordini vennero a mezzanotte. Un ufficiale SS ci intimò di tenerci pronti per la partenza al mattino alle ore 6. Tutti dovevano partire, anche gli ammalati, anche i moribondi. Mio Dio che spettacolo desolante al mattino! Poveri infermi sulle spalle dei compagni, che pur male si reggevano, tentarono l’uscita, ma cadevano per terra sfiniti. La pioggia cadeva insistente e per tre ore tutti i deportati restarono non più ordinati ad attendere la partenza. Quanti lamenti, quante cadute di poveri moribondi che alla morte chiedevano il termine del loro patire.

Alle ore 9 una puntata di carri armati americani ha fatto comparsa dinanzi alla porta del campo. Un disperato allarme ne ha dato notizia; gli SS fuggirono e tutti ritornarono alle loro baracche. Cessato il pericolo, le guardie si prepararono alla resistenza. Per tenere a bada i prigionieri, issarono sulla torre del campo la bandiera bianca per significare la resa, mentre il campo veniva minato. […]

Quale sarà la nostra sorte? Si sapeva che il campo di Buchenwald era stato incendiato e 28.000 deportati dei 32.000 che vi languivano trovarono barbara morte. La stessa fine dovevamo aspettarci noi pure. Ad evitare tanta strage gli americani si accingevano alla liberazione del campo con un’operazione a tenaglia, onde impedire la fuga degli SS come avevano fatto in altri campi.

La liberazione.

La mattina del 29 aprile 1945 vi era fra gli internati una mal contenuta animazione. Ciascuno faceva le sue congetture, tutti avevano delle previsioni, tutti parlavano sottovoce quasi a non voler disturbare lo sforzo dei liberatori che avanzavano sormontando ogni ostacolo e vincendo ogni resistenza. La lotta si fece accanita intorno alla “rocca” di Dachau e solo verso sera, vinta ogni resistenza, gli americani volsero le operazioni verso il campo. Già da tempo si era formato un comitato internazionale di liberazione, che in forma segretissima aveva impartito disposizioni. A fianco del comitato internazionale, ogni nazione aveva il suo comitato pronto ad agire al momento opportuno.

Nelle prime ore del pomeriggio le immediate adiacenze del campo divennero il teatro delle operazioni, per cui fu necessario rientrare tutti nelle baracche per attendere gli ultimi eventi. Quanto furono lunghi quei momenti di angosciosa attesa. Alle ore 17 il fuoco delle armi cessò, si spalancarono le porte e le finestre, e da quegli alveari umani che si chiamavano baracche uscirono sciami di popolo ad accogliere, applaudire e baciare i nostri liberatori. Fra le schiere di avanguardia americane, vi erano molti italo-americani che parlavano egregiamente il nostro dolce idioma. Portammo in trionfo sulle spalle quei bravi soldati che avevano esposta la loro vita per salvare la nostra. […]

Mai fu così fervido e torturante il ricordo della famiglia come nei giorni che seguirono la liberazione! Quanti fuggirono dal campo senza aspettare i mezzi di trasporto che dagli americani ci erano stati promessi! L’amore verso la famiglia e la patria ha fatto intraprendere a molti il lunghissimo viaggio a piedi.

Appena liberato il campo fu premura degli alleati sistemare i poveri ammalati che erano oltre 6.000. Nella scuola militare degli SS ed in tutti i palazzi adiacenti al campo furono allestite corsie d’ospedale. Forniti di modernissima attrezzatura, gli improvvisati ospedali accolsero i sofferenti ai quali valentissimi medici, infermieri e crocerossine prestavano amorevolmente i servizi della loro professione. Con l’assistenza medico-sanitaria, chiesero anche l’assistenza religiosa che immediatamente fu organizzata. […]

La mattina del 12 maggio 1945, entrato di buon mattino nell’infermeria n° 13, mi si parò allo sguardo uno spettacolo insolito. In una interminabile fila di bianchi lettini, giacevano altrettanti cadaveri. Come la morte aveva mietuto in una sola notte tante vittime? La sera precedente, in un nascondiglio sotterraneo, erano stati trovati dei recipienti sigillati. Creduto liquore, il contenuto era benzolo. Di sapore gustoso, fu tracannato da alcuni con molta avidità, ma dopo qualche tempo apparvero i sintomi di intossicazione e, nonostante l’interessamento pronto e premuroso dei sanitari, quasi un centinaio di internati trovarono la morte fra spasmi atroci. […]

La mattina del 27 maggio sugli automezzi della Pontificia Commissione e del Comando Alleato quasi 2.000 ex internati italiani lasciavano il campo per varcare il Brennero e ritornare alla patria. Quanta animazione, quanto entusiasmo per tutta quella notte! Quasi tutti gli ex internati in buone condizioni di salute, poterono fare ritorno a casa dopo un viaggio durato due giorni. Restavano in campo gli ammalati ed i convalescenti, ai quali bisognava provvedere mezzi di trasporto adeguati alle loro condizioni. […]

Ritorno a casa.

22 giugno 1945 ore 7: il grosso convoglio si muove; vanno innanzi le macchine dei convalescenti e seguono le ambulanze con gli ammalati. Il viaggio si compie in un paesaggio dove le bellezze della natura portano ancora sanguinanti le ferite della guerra cessata soltanto da due mesi. Monaco: la bella città è semidistrutta; alcuni quartieri sono rasi al suolo. Che desolazione!

Attraversata la città siamo nella strada che da Monaco conduce a Innsbruck. La via maestosa è fiancheggiata da vastissime pinete dove sono attendate le famiglie di Monaco che hanno perduto la loro casa. Siamo alla città bagnata dall’Inn. Rivedo la città bruciata da un sole tiepido; quella città che nel febbraio dell’anno prima avevo veduta coperta da uno spesso manto di neve. Dopo breve sosta si riprende il viaggio e verso le ore 14 siamo al Brennero. Una manifestazione d’affetto nazionale ci accoglie dove vediamo sventolare la nostra bella bandiera. […]

Dal Brennero le macchine discendono verso Bolzano. Ci attende là una vecchia caserma divenuta amplissimo campo di smistamento donde gli ex internati partono ora a grandi, ora a piccoli convogli per raggiungere le loro famiglie. Entriamo nel campo alle ore 18 del 22 giugno 1945. L’organizzazione è impeccabile; quanti generosi hanno offerto la loro opera a sollievo di tanti poveri sventurati. E’ pronto il ristoro del cibo, del vestito, del letto. Sarebbe stato dilettevole poter proseguire il viaggio fino a Padova senza soste, ma non fu possibile. La sosta durò un giorno e la sera del sabato 23 giugno, con un’ambulanza che portava a Padova, iniziammo l’ultimo viaggio di ritorno. Fu un viaggio assai periglioso, perché da Bolzano a Padova impiegammo 24 ore, avendo subìto la macchina 12 guasti. Una foratura ci lasciò alle 2 di notte sulla strada che da Trento porta a Borgo di Valsugana, dove la mattina del 24 giugno andammo in cerca di una officina meccanica per le necessarie riparazioni.

Lentamente, e con soste che ritardarono l’arrivo previsto per il mezzogiorno, giungemmo a Padova verso le ore 18 del 24 giugno, festa di San Giovanni Battista. Concittadini che mi avevano visto a Bolzano avevano preannunciato il mio arrivo, sicché nella città di S. Antonio ero atteso. Portato nella parrocchia suburbana di S. Gaetano Thiene in Terranegra, dalla quale ero stato rapito il 14 dicembre 1943, celebrai la S. Messa di ringraziamento a Dio, che dopo 18 mesi di forzata lontananza mi restituiva alla diletta famiglia parrocchiale.

 

tratto da: Ferdinando Baldan e Giuseppe Bracconeri, Tempio dell’Internato Ignoto – S. Gaetano in Terranegra. Un Uomo, una Parrocchia, un Tempio